Friday, May 30, 2014

[Commenti Game Chef] L:G:F di Ezio Melega

Il primo gioco che mi accingo a recensire per la fase di valutazione del Game Chef 2014 italiano è L:G:F di Ezio Melega.
“Full disclosure”: Ezio è un mio caro amico da anni e, per diverso tempo, compagno di gioco. Tuttavia, non ho in alcun modo avuto parte nella creazione di L:G:F e sono fermamente convinto di poterne dare una valutazione spassionata.
Nota: se non avete ancora letto il gioco, o se avete letto solo i primi due file e vorreste giocare nel ruolo di Mutato, vi sconsiglio la lettura della recensione. Se volete leggerla comunque, prestate attenzione alle segnalazioni di “spoiler”.

La presentazione

Come altri partecipanti a questa edizione del contest, anche L:G:F si presenta nella forma di alcuni libretti differenziati da distribuire ai giocatori che occupano diversi ruoli: un formato, reso popolare dai playbook di Apocalypse World, che reca diversi vantaggi di immediatezza e praticità rispetto a quello tradizionale del “manuale”. Nello specifico, qui abbiamo un’introduzione comune a tutti i giocatori, un libretto di istruzioni per i giocatori Mutati (che giocano i personaggi protagonisti) e uno per i Primarchi (i giocatori che fungono da opposizione ai Mutati, introducendo nel gioco le avversità), oltre a una postfazione in cui, fra l’altro, l’autore illustra il proprio uso degli “ingredienti” del concorso. Il tema dell’anno, “il libro non esiste”, non è stato affrontato tanto nella forma dell’elaborato, quanto nel suo contenuto.
Alcune ovvie fonti d’ispirazione per il design sono Dog Eat Dog di Liam Liwanag Burke (eccellente gioco sulle meccaniche dell’oppressione, da cui L:G:F riprende in parte anche le meccaniche di segnalini) e The Drifter’s Escape di Ben Lehman (altro caso in cui sono un gruppo di giocatori e non un singolo giocatore a incarnare collegialmente la società come forza oppressiva). L’ambientazione rimanda chiaramente all’abbondante letteratura e cinematografia fantascientifica sulla distopia, ma la maniera in cui è trattata la mutazione genetica (fonte dei superpoteri) inevitabilmente richiama gli X-men dei fumetti Marvel.
Una particolarità del gioco è di contenere alcune informazioni e regole segrete: il fascicolo destinato ai Primarchi non deve essere letto da chi vuol giocare i Mutati, e chi lo avesse già letto non potrebbe più assumere quest’ultimo ruolo. È una scelta di design rischiosa, ma tutto sommato coraggiosa, considerando che sfida quelle che sono oggi le opinioni più diffuse nel nostro ambiente (ovvero che l’uso dei segreti fra giocatori sia design pigro, socialmente problematico, ecc.).
L’idea, qui, mi pare essere che ciascuno provi per la prima volta il gioco nei panni di Mutato e in seguito, scoperti i segreti, possa propagarlo giocando il ruolo di Primarca. L’autore, quindi, ha fatto bene a rendere plurale (o, meglio, collegiale) il ruolo dei Primarchi, e anche a rinchiudere solo il minimo indispensabile di informazioni nel libro “segreto”: tutte le necessarie informazioni logistiche, invece, sono nell’introduzione e nel libro del Mutato, rendendo teoricamente possibile portare i materiali di gioco con sé e proporre il gioco a un gruppo di persone *senza* aver letto il libro del Primarca, e la lettura integrale non richiederà comunque che pochi minuti. Consiglierei, anzi, di rendere più flessibile la proporzione tra giocatori Mutati e Primarchi (al momento fissata in #M=#P o #M=#P+1), in modo da coprire una più ampia casistica di possibili contesti di gioco.
Un’altra conseguenza di questa scelta è che, tendenzialmente, ogni potenziale giocatore giocherà, nella vita, una sola partita nel ruolo di Mutato: dal punto di vista degli obiettivi di design, ciò significa doversi concentrare sul dare un’esperienza completa e soddisfacente al primo (o unico) incontro giocatore-gioco, cosa che richiede di combinare la sintesi con un’estrema chiarezza di comunicazione, e di semplificare meccanismi e contenuti del gioco proprio in funzione di tale massima efficienza comunicativa. Pochi designer sono riusciti in questo, mentre generalmente ci si accontenta di pensare che, poiché ciascun gioco di ruolo è unico, ciascuno presenta una curva di apprendimento separata, e pazienza allora se la prima partita o le prime partite per ogni particolare individuo o gruppo sono tentativi e sperimentazioni non pienamente soddisfacenti!
Poi rimane, naturalmente, il classico problema “sociale” di un sistema fondato sui segreti: discuterne in pubblico. Avrei voluto mantenere questa recensione il più possibile “spoiler-free”, ma sarebbe stato impossibile, perciò mi sono accontentato di segnalare le sezioni che contengono i maggiori spoiler.

I meccanismi

Scene a rotazione per ciascuno dei protagonisti, in base al posto a sedere dei giocatori: un solido classico. Buona idea quella di alternarvi brevi scene, diciamo così, d’intermezzo, vignette in cui i protagonisti non appaiono ma che possono essere usate per mostrare le conseguenze delle loro azioni sul mondo esterno: ciò accade nei turni dei giocatori Primarchi, che appositamente infatti si siedono alternati ai Mutati.
Quest’ultimo è solo uno dei modi in cui Ezio, in questo design, si dimostra estremamente consapevole della gestione degli spazi fisici anche in un gioco di ruolo “tabletop” (cioè, essenzialmente, in una conversazione verbale). Un altro lo si ritrova nei rituali comportamentali suggeriti ai Primarchi: l’uscire dalla stanza per consultarsi, l’importante segnale non verbale di toccare col dito il libro sacro per segnalare la violazione di una “regola” sociale e quindi il conflitto.
I “conflitti” sono risolti senza alcun ricorso alla casualità, ma semplicemente come caso particolare delle regole generali su chi può dire cosa. Soluzione che, almeno sulla carta, mi appare estremamente elegante. Resta comunque la necessità di identificare i “conflitti” come tali nella fiction, sia perché le regole generali hanno qui bisogno di essere applicate con particolare rigore, sia per come è espressamente regolamentata la possibilità di “fare marcia indietro” ritrattando le proprie affermazioni, e anche perché quest’ultimo momento è uno dei punti di contatto (insieme alla riflessione soggettiva di fine scena) in cui il contenuto narrato si ripercuote sul meccanismo dei gettoni.
I gettoni sono il più appariscente e centrale meccanismo estrinseco del gioco. Il loro movimento è influenzato dalla fiction a intervalli regolari (conflitti e conclusioni di scena) e si ripercuote su di essa con aderenza incessante, poiché delimita la gamma di contenuti che ai Primarchi è consentito narrare. La predilezione per una direzione di movimento tra le due possibili (il Mutato può sia perdere, sia acquistare segnalini a fine scena, alla velocità di uno per scena, ma attraverso il conflitto può solo perderne, e in qualsiasi numero) rispecchia nella meccanica di gioco la pressione della sovrastruttura sociale, rendendo un tipo di finale più probabile (e quindi ordinario) e l’altro più straordinario: e quindi potenzialmente più attraente per l’ego dei giocatori, compensando in qualche modo l’illimitato potere di ricatto che i Primarchi hanno nei confronti dei Mutati reticenti all’assimilazione. Questa asimmetria non sembra però sufficiente a introdurre una fonte certa di entropia nel ciclo: nonostante tutto, lo spostamento di gettoni potrebbe, almeno in teoria, proseguire all’infinito nell’alternanza di togli e metti. Per prevenire ciò, viene introdotto un numero fisso di “giri” di scene, dopo il quale ogni valore intermedio viene portato a un estremo e si va, in ogni caso, ai finali: è una soluzione forse inelegante, ma accettabile. Suggerisco che il numero massimo di giri potrebbe diventare una variabile, da stabilire all’inizio del gioco in base al tempo reale a disposizione. Sono sicuramente possibili anche soluzioni più complesse, probabilmente agendo sulla struttura della Guida: per esempio modificando nel corso del gioco i punteggi corrispondenti ai diversi contenuti (rendendoli cioè dei contatori) in modo da eliminare gradualmente dei livelli, soprattutto centrali, finché non rimangono solo i due estremi.
Un appello: il nome di Accettazione per i gettoni è assolutamente fuorviante. A un certo punto ho compreso che ciò si riferisce alla “accettazione della propria vera natura” da parte dei Mutati, ma lo stesso vocabolo potrebbe anche indicare l’accettazione degli individui mutati da parte della società. Alla prima lettura della Guida, infatti, interpretando la parola “accettazione” nella seconda accezione avevo creduto che il compito dei giocatori Primarchi fosse di spingere i Mutati alla ribellione esasperandoli e frustrandoli quanto più cercano d’integrarsi, che invece è l’esatto contrario di quanto la Guida indica di fare! Propongo di cambiare il termine in qualcosa di meno facilmente equivocabile.
Un dettaglio relativamente minore: far mettere per iscritto ai Mutati quelle che pensano essere le regole della società, come elemento di riflessione dopo le scene, mi pare piuttosto debole in questo gioco. A differenza di Dog Eat Dog, infatti, dove le regole create in questo modo diventano a tutti gli effetti le regole in vigore, qui rimangono per necessità delle ipotesi. Il senso di questo “rituale” credo sia il sottolineare ogni volta che esistono delle regole inconoscibili, e che è stata l’infrazione di quelle regole a causare guai al personaggio… Ma penso sarebbe più efficace, e più in linea col ruolo dei Mutati, se questo piccolo rito rimanesse del tutto orale. L’atto di scrivere rischia di evocare una legittimità a cui le ipotesi formulate in questa fase non possono ambire.

Il contenuto

Questa è la parte della recensione in cui non riuscirò a evitare i grossi spoiler! Quanto segue, inoltre, sconfina quasi nelle divagazioni filosofiche spicciole, quindi chi è curioso di giocare a L:G:F come “Mutato” salti pure alla sezione successiva (“Uscire dai confini del libro”) senza particolare indugio.
“Oppression superpowers”: queste parole mi sono spesso lampeggiate nella mente durante la lettura, ma con un punto interrogativo alla fine. “Oppression superpowers?” Ovvero, il gioco scade in questo sciagurato cliché o lo evita con un saltello? L’ambientazione di L:G:F ha qualcosa di involontariamente sconsiderato, o piuttosto il problema è stato considerato attentamente e, nell’opinione dell’autore, risolto?
Ci sono più letture possibili della metafora… Una sarebbe quella sull’adolescenza, quindi sull’accettazione di se stessi nella propria trasformazione fisica e mentale, processo che comunemente racconta se stesso come un conflitto con “l’autorità”, entità indefinita e onnipresente. Ci sono più letture possibili, sì, ma ciò che vedo più immediatamente problematico, nella premessa di questo gioco così come in ogni storia di “mutanti” oppressi, è il ruolo della genetica.
Sappiamo che nel mondo reale ogni forma di discriminazione è, per definizione, un dato culturale ed è, sempre per definizione, infondata: anche quando (come accade nei razzismi, ma non solo) si rifà ad una presunta base genetica. Razionalmente noi sappiamo che la specie umana è una ed una soltanto, che tutte le differenze genetiche fra individui sono appunto differenze individuali e che è mera pseudoscienza il suddividere la nostra specie in due o più gruppi giustificandolo con “i geni”. Scenari come quello delineato in L:G:F sembrano corrispondere alla lettera alle fantasie dei razzisti, restando perciò portatori di un messaggio essenzialmente fuorviante anche quando l’autore si schiera senza indugio dalla parte dei “diversi” di turno: perché essenzialmente fuorviante è immaginare una “diversità” giustificata da ipotetici fatti oggettivi (la mutazione genetica “Falce”).
*[ATTENZIONE: GROSSI SPOILER]* La domanda che mi pongo, senza peraltro sapermi rispondere, allora diventa: nel campo della rappresentazione metaforica di fenomeni socioculturali reali, trasfigurati nel fantastico, quanto l’intento esplicito di portare l’attenzione su un errore di rappresentazione giustifica l’impiego strumentale di una rappresentazione errata, e quanto invece la proliferazione di rappresentazioni errate rimane dannosa indipendentemente dal fine che si prefigge? Nello specifico del game-design, la domanda a cui non so rispondere diventa: la “morale” a fine gioco confinata in un “falso fondo” è una forma di comunicazione efficace, in cui l’effetto sorpresa serve a meglio sottolineare il concetto? O è una forma di comunicazione carente, perché dobbiamo preventivare una maggiore esposizione alla “copertina” che non al “vero” contenuto?
In altre parole, mi domando se la questione genetica (come potenziale metafora della persecuzione razzista) in L:G:F sia sufficientemente problematizzata, e la mia impossibilità a trovare una risposta dipende dalle caratteristiche della forma. Potrei dare un giudizio positivo (non *nettamente* positivo, ma positivo) sul testo, quando letto integralmente e quindi da un aspirante giocatore Primarca, ma ho difficoltà a fare pronostici sugli esiti comunicativi nel gioco giocato. Tendenzialmente, il gioco di ruolo come mezzo di espressione politica (del game designer) ha scarso impatto: verrà giocato quasi esclusivamente da chi già condivide più o meno le posizioni dell’autore, e vissuto come una riconferma e celebrazione di quelle idee. Diventa realmente significativo quando si riesce a controllare il pubblico a cui è destinato, oppure quando il fulcro si sposta dall’affermazione di una posizione alla disamina di dinamiche reali (Dog Eat Dog, The Drifter’s Escape, GR di Tobias Wrigstad…) nelle quali il giocatore si “immerge” in maniera sicura e ha così l’opportunità di comprendere in maniera intuitiva collegamenti e meccanismi che non sono evidenti dall’esterno. Se quest’ultima fosse l’aspirazione di L:G:F, la maniera in cui è posta inizialmente la questione genetica potrebbe rivelarsi un limite insormontabile. Dico “potrebbe” perché non ho abbastanza esperienza con le rivelazioni a sorpresa nel finale in un contesto politico-pedagogico per fare pronostici, e non conosco neppure molta letteratura a riguardo (un raffronto possibile è col live System Danmarc, dove però “la rivelazione” avvenne nel debriefing). Anche le peculiarità di un’ambientazione fantascientifica, altamente simbolica, rischiano di diventare una distrazione se questo è l’intento.
*[ATTENZIONE: GROSSI SPOILER]* Un dettaglio che mi ha particolarmente colpito, a cui continuo a ripensare, è la prima pagina (la copertina o facciata) del libretto del Primarca, che presenta un punto di vista del tutto ragionevole ed equilibrato: delle ottime e logiche ragioni per preservare una società in cui ai possessori/utenti di superpoteri non sono accordati maggiori diritti, in cui il potere dato dalla Falce è regolamentato come sarebbe regolamentata un’arma da guerra in tempo di pace. Sebbene il destino di questa facciata sia di essere contraddetta alla pagina successiva, continuo a ripensarci perché se fosse questa la verità sui Primarchi essa porrebbe le basi per il tipo di gioco e di storia che io amo di più: quello in cui nessuno ha completamente torto o completamente ragione, perché tutti sono semplicemente umani… Se solo la fonte dei superpoteri non fosse genetica, con tutti i problemi che ciò implica! Forse, se qualcosa di questa facciata fosse vero, se le motivazioni dei Primarchi fossero più sfumate, ciò porterebbe a maggiori possibilità di gioco metaforico sull’esperienza dell’adolescenza, sull’anarchismo politico, sul confine tra ribellione e terrorismo, e altre domande di cui non abbiamo già in tasca la risposta giusta? Allo stato attuale la rivelazione finale, mentre corregge il torto che la premessa iniziale aveva arrecato alla nostra realtà, rischia anche di vanificare ogni riflessione profonda fino a quel punto scaturita, nel momento in cui l’edificio sociale del mondo immaginario crolla come un castello di carte.
*[FINE DELLA PARTE PIÙ FITTA DI SPOILER]*

Uscire dai confini del libro

Premesso che quello che ho di fronte è un gioco evidentemente già giocabile, una bozza di cui mi sentirei in grado di iniziare un playtest anche ora (ma ciò è generalmente vero dei concorrenti di questo Game Chef Pummarola), per un caso fortuito secondo me è proprio il tema “il libro non esiste” (nell’accezione di ricerca di metodi di comunicazione alternativi che molti gli hanno dato) a indicare la più logica direzione di sviluppo per L:G:F.
Considerando infatti la presenza di informazioni segrete, di gesti e comportamenti rituali, e il probabile interesse a selezionare il pubblico a cui rivolgersi (per controllare potenziali derive del messaggio), io suggerisco a Ezio di pensare a L:G:F non tanto come a un “prodotto” (un libro, cartaceo o digitale, un oggetto-testo da scaricare dalla rete) quanto come a un “evento”.
Pensare il gioco di ruolo come un evento significa partire dalla situazione logistica e sociale, dal ritrovo di persone, e considerare tutto il materiale testuale e di altra natura come mera componentistica. Significa partire dalla presenza fisica dell’organizzatore-autore come punto d’inizio, senza escludere che poi da lì una palla di neve prenda a rotolare. Significa sgombrare la mente dalla necessità di descrivere/promettere un gioco attraverso un testo, e concentrarsi solo sul dare un’esperienza di gioco a queste persone in questo momento. Richiede il coraggio, insomma, di abbracciare la realtà dei fatti così com’è, sbarazzandosi della bugia di un libro che, tanto, non esiste.

4 comments:

  1. Per commentare andrò in full-spoiler mode, quindi...

    Grazie per la review, è decisamente interessante.
    La prima cosa che dico è che, qualunque cosa succeda, e nonostante tu non sia stato l'unico a farlo notare, il termine "Accettazione" è l'unico che rimane, inchiodato.
    Perché, te lo assicuro, il gioco non parla in generale di adolescenza, cambiamenti, crisi, ma ha un tema ben specifico. Parla di SESSUALITA' o, ancora più precisamente, di sessualità "queer".
    In quest'ottica tengo molto a quella terminologia. Full disclosure: i "superpoteri" sono solo la realizzazione del proprio potenziale quando non represso da regole sociali arbitrarie. Il gioco ha un messaggio di fondo: siamo tutti "diversi", e le assurde e arbitrarie regole della società sono lì sono per frustrarci. Possiamo chinare il capo e abbracciare la sicurezza piccolo borghese, conformarci e diventare persino oppressori, oppure ribellarci e scoprire che, no, quello che siamo non è sbagliato, che è perfettamente normale, che i "normali" sono come noi, solo repressi. Però dobbiamo essere disposti a pagarne il costo.
    Si, è un discorso che potrebbe applicarsi a molte "ribellioni", ma nello specifico questo gioco parla di una liberazione sessuale, che passa prima dall'accettare sé stessi.
    Il termine, quindi, è l'unica cosa che considero inviolabile del gioco.
    Allo stesso modo è da questo concetto che nasce l'idea di non rendere simpatetico il progetto dei Primarchi: ho una tesi e non ho paura di farla precipitare dall'alto attaccata ad un incudine.

    Ho notato anch'io, in fase di scrittura, che stavo scivolando verso l'oppression superpower e, dato che si trattava di sperimentare, ho deciso di fare una cosa rischiosa: invece di cambiare direzione ho accellerato e provato a saltare.
    Da questo nasce l'idea che TUTTI siano mutati, che quindi TUTTI abbiano superpoteri repressi, che non vengono usati per sottostare a regole del tutto arbitrarie, anche se apparentemente logiche. L'unico modo per accedere a questi superpoteri è, effettivamente, ribellarsi, un atto di volontà che ti pone, di fatto, al di fuori delle regole.
    Ho quindi cercato di aggirare quel rischio dipingendo un mondo in cui gli oppressi non hanno superpoteri, ma questi sono garantiti ai ribelli, e, allo stesso tempo, avere poteri non è una particolarità. Cero di schivare anche i concetti eugenetici e razzisti che fai bene ad evidenziare: essere "una falce" è, in questo scenario tanto arbitrario quanto essere "bianco" nella nostra società: non è una vera distinzione genetica, sono tutti mutati, le teorie sulla razza e sulla genetica sono arbitrarie e false ed è tutta una questione di sottostare o meno ad una società oppressiva.
    Non so quanto questo mio tentativo sia stato efficace e quanto, invece, non sia andato a piantarmi di muso nella buca dell'oppression superpowers.
    Posso dire di averci provato.

    Molto, molto valida l'idea di mantenere orale l'esposizione delle regole. È un rituale che mi piace, serve, nella mia testa, a produrre uno sforzo in più, un tentativo di indovinare regole che in realtà non esistono che non può che portare ad una discreta paranoia, al sospetto che il gioco preveda meccaniche crudeli per quelle parole, aumentando quindi il senso di frustrazione e "vaffanculo" finale, cosa a cui miro molto. Però credo che una rappresentazione orale possa essere più funzionale, in questo caso, che quella scritta.
    Interessante anche l'idea di rendere più flessibili le proporzioni Primarchi/Mutati.
    Grazie!

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    1. Oh, ora capisco! Mi va a posto anche un ultimo pezzettino che prima non mi sembrava significativo.
      Mi chiedo se non si possa trovare una metafora che, senza cambiare altro, eviti il "passo falso" genetico… Sicuramente mi capiterà di pensarci ed, eventualmente, di farti qualche proposta.
      Per la terminologia, invece, forse semplicemente una cosa come "Auto-accettazione" o "Accettazione di sé", per prevenire ogni ambiguità di comunicazione senza perdere il riferimento?

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    2. Pare che TUTTI, siano stati confusi dal termine.

      E, nella mia testa bacata, questa è ragione necessaria e sufficiente per INTESTARDIRMI AD USARLO ESATTAMENTE COSI' com'è.

      Troppo hipster?

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  2. This comment has been removed by the author.

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