Thursday, June 13, 2013

Recensione Game Chef 2013: “Legione Straniera”, di Iacopo Frigerio

[Con colpevole ritardo, ecco finalmente l'ultima delle mie recensioni "ufficiali" per il Game Chef!]

Frigerio è autore ed editore di giochi di ruolo fra i più prolifici in Italia negli ultimi anni, sempre mantenendo un profilo che definirei “d’essai”. Legione Straniera (titolo provvisorio, presumo) è la sua proposta per questo Game Chef, e si presenta alla lettura come un elaborato scarno e di certo scritto molto rapidamente, dalla forma quasi di appunti per una futura stesura, e tuttavia (anzi, forse proprio per questo) intriso di una elevata professionalità.
Professionalità perché l’autore, nel suo approccio alla competizione, non ha tentato (per esempio attraverso la grafica o altri aspetti della presentazione) di costruire l’illusione di un prodotto finito, ma si è concentrato esclusivamente sul design delle meccaniche di gioco realizzando una prima bozza strettamente funzionale al playtest. Non dico che questo sia l’unico approccio “corretto” al Game Chef, né necessariamente il migliore (del resto, accade di frequente che alcuni componenti della presentazione agiscano da fattori determinanti del gameplay, comportandone il coinvolgimento imprescindibile in ogni stadio del processo di design), ma mi appare come un approccio estremamente onesto, e anche responsabile: nel senso che, quando un designer ha fatto un così visibile investimento di lavoro nel primo concept di un gioco salvo presentarlo come bozza così chiaramente provvisoria, ciò sembra implicare che si stia fin dall’inizio assumendo la responsabilità di continuarne lo sviluppo, perché riconosce che questo è solo il primo passo di un processo lungo e articolato.

L’ambientazione

Trovo la scelta di un’ambientazione storica un’ottima mossa per una competizione a tempo come il Game Chef. Intanto, come prova di coinvolgimento dell’autore nella tematica: poiché l’uso di un’ambientazione storica presuppone un lavoro di ricerca, e quindi nel contesto di uno stretto limite di tempo dimostra un interesse preesistente per un argomento che il designer in qualche modo ha “sentito risuonare” con il tema e gli ingredienti della competizione. Troppo spesso, invece, noi concorrenti (e io per primo ne ho una lunga storia) siamo colpevoli di arrampicarci sugli specchi costruendo ex novo attorno agli ingredienti ambientazioni fantascientifiche o fantastiche che, inevitabilmente, risultano poco approfondite, deboli o farraginose.
Poi, perché è proprio un’ottima mossa come strategia di presentazione: invece di dedicare pagine alla descrizione di un mondo, consumando tempo di lavoro e parole (entrambe risorse limitate), è sufficiente che l’autore indichi in breve quelli che considera gli aspetti salienti dell’argomento, lasciando ai lettori il compito di fare ricerche e approfondire, se lo vogliono. Letture specifiche sulla Legione Straniera francese ne esistono sicuramente a iosa, e oggi viviamo in un mondo in cui l’accesso all’informazione storica è relativamente facile. Beninteso, in future versioni del testo mi aspetto comunque (per cominciare) una bibliografia ragionata, strumento con cui il designer potrà orientare i giocatori verso un taglio interpretativo conforme a quello che lui stesso ha seguito nel suo design.
Mi colpisce favorevolmente anche la scelta, abbastanza originale seppur non senza precedenti, di prendere come ambientazione non un periodo storico e un luogo, bensì l’intera storia di un’istituzione. Tuttavia, penso anche che non toglierebbe nulla al gioco se in future edizioni del testo l’autore decidesse di concentrarsi, per esempio, solo su una specifica guerra: sarebbe una scelta decisamente più pratica se si volesse presentare, insieme alle regole, un compendio di informazioni storiche e di costume tale da rendere solo opzionali ulteriori letture.

Le meccaniche

Nessuna delle meccaniche impiegate in Legione straniera è di per sé particolarmente originale: si tratta piuttosto di un buon mix di elementi già visti in molteplici altri giochi, di ruolo e non. Un design “frankenstein”, quindi, e complessivamente ben fatto in questo, che è prova di buon “mestiere” ma soprattutto della vasta erudizione ludica dell’autore: sarà interessante leggere, in una futura stesura, una ludografia delle sue fonti d’ispirazione dichiarate. Tiene insieme il tutto la strategia di design più classica e meglio collaudata: affidare l’inquadramento di tutte le scene, l’introduzione di avversità sia immaginate sia meccaniche, la gestione delle poche informazioni segrete e, oserei dire, “il ritmo” del gioco a un singolo giocatore, qui chiamato “Guerra”. Ci vuole sempre un pizzico di coraggio e una certa sicurezza di sé per far questo in una competizione del genere, in cui si viene giudicati anche per l’originalità, invece di tentare a ogni costo impianti di gioco più “alla moda” o anche deliberatamente “strani” che poi, tante volte, si rivelano eccessivamente complicati o comunque non funzionanti.
La meccanica di risoluzione dei conflitti (terminologia non impiegata nel testo, ma che non esito a utilizzare per analogia) è basata sui dadi e sull’azzardo e prevede una “posta” sempre fissa e non negoziabile: il legionario viene ferito oppure no? La componente di azzardo è ciò che lega questi tiri di dado alla fine del gioco, visto che al giocatore si richiede di “risparmiare” dadi nel corso della partita per poter poi ottenere un finale positivo per il proprio personaggio (l’obiettivo ideale è risparmiare 11 dadi), ma cercando comunque di superare la soglia di difficoltà di volta in volta crescente per non rimanere senza più chance (ogni personaggio può infatti sopportare solo due ferite, la terza è mortale; e la morte è, nell’ottica di questo gioco, un finale negativo). La fortuna ha ruolo importante, perché solo i dadi che risultano in un 5 o un 6 possono essere “messi da parte”. Un ulteriore parametro distinto, la Brutalità, incide su questo equilibrio, rendendo più probabile evitare le ferite ma anche rischiando di condannare il personaggio a un finale comunque negativo; a differenza di quanto discusso finora, l’accumularsi di Brutalità (e della sua controparte, Pietà) dipende esclusivamente dal comportamento del personaggio “nella fiction” e dal giudizio che ne danno gli altri giocatori, e quindi introduce nel sistema di risoluzione e giudizio finale una forte componente fiction=>meccaniche (cosa in questo contesto indubbiamente positiva).
Intravedo però alcune possibili pecche in questa struttura. Una è la mancanza di chiarezza rispetto ad altri possibili conseguenze a breve termine del conflitto, che non siano la ferita: il testo dice che anche in caso di fallimento il personaggio “può comunque essere riuscito nella sua azione ”, ma chi lo decide? Si direbbe, parte il giocatore stesso (che decide come il proprio personaggio viene ferito) e parte i compagni (che narrano chi e come lo trae in salvo), mentre Guerra non sembra prendere parte nella decisione: ma ciò rimane implicito. Qui il rischio è che un protagonista possa prendere una ferita eroica “gratis” nelle ultime fasi del gioco: se arrivo al penultimo turno senza aver subito ferite, e i dadi determinano nell’immediato “solo” il mio ferimento, poiché è solo la terza ferita ad avere conseguenze sono ormai “al sicuro”. A questo punto non avrei più incentivi a far agire il mio personaggio con Brutalità, e mi limiterei a tirare i dadi sperando di ottenere quanti più 5 e 6 possibili, che ovviamente risparmierei tutti. Se invece, per esempio, Guerra avesse facoltà di determinare tutto ciò che non riguarda direttamente la ferita in caso di tiro fallito, allora la minaccia di conseguenze su PNG (che possono aver sviluppato una dimensione affettiva nel corso dei precedenti turni di gioco), sull’esito complessivo della missione bellica o altro potrebbe rendere meno automatica la scelta di mettere da parte dadi. Una soluzione alternativa allo stesso problema, s’intende, è quella di rendere il numero di turni per partita variabile invece che fisso, ma ciò implicherebbe andare a modificare una struttura macroscopica che appare già valida solo per risolvere quello che tutto sommato è un dettaglio, e quindi non credo sarebbe la miglior scelta di design.
Altra possibile pecca riguarda il sistema della Fiducia, un meccanismo ispirato a The Mountain Witch di Timothy Kleinert e derivati (Cold City di Malcolm Craig, il sottosistema della Hx in Apocalypse World di Vincent Baker). I punti Fiducia assegnati ai compagni permettono di tirare dadi aggiuntivi, il che è molto importante nell’economia del gioco, specie a fronte della soglia di difficoltà crescente. Tuttavia, il contraltare, cioè l’unica ragione per non assegnare punti Fiducia a man bassa, è relativamente debole, perché solo quelli assegnati dalla vittima designata all’Infiltrato avranno conseguenze, e anche questo non è certo. Considerato che l’attentato avviene solo alla fine del gioco, e che mettendo da parte dadi nel corso dei vari turni il bersaglio accresce oltretutto la propria probabilità di salvezza, mi pare ovvio che la strategia di gioco ottimale sia quella di abbondare con la Fiducia: più dadi da tirare equivalgono a più dadi messi da parte e una minor probabilità di morte prematura, più dadi messi da parte a un finale più felice per il mio personaggio, e giunti al momento della verità se sono proprio io la vittima designata mi resta comunque almeno un’opportunità di salvarmi la vita; se invece fossi parco con la Fiducia tirerei meno dadi e rischierei quindi un finale triste, per tacere della maggior probabilità di morire comunque anzitempo. Infine, se l’Infiltrato sono io, non ho alcuna ragione meccanica di non elargire Fiducia a tutti: solo il rischio di creare sospetti mi indurrà a limitarmi un po’, se questo avvicina il mio comportamento a quello di tutti gli altri.
Possibili variazioni al sottosistema della Fiducia? Me ne vengono in mente almeno due, posto che rimanga com’è il ruolo dell’Infiltrato (tema che affronterò oltre). Una possibilità è eliminare i dadi-Fiducia, mantenendo solo i punti Fiducia: è una variabile in meno sul numero di dadi tirati, ma i dadi “aiuto” potrebbero comunque esistere, solo in proporzione fissa; e forse se si accettasse l’aiuto di un compagno sarebbe poi obbligatorio dargli il punto di Fiducia. Alla fine del gioco, se l’Infiltrato è il personaggio a cui la vittima designata ha accordato la Fiducia più alta (anche a pari merito!) l’attentato riesce automaticamente, altrimenti fallisce. L’altra possibilità a cui pensavo è cambiare il momento in cui l’attentato avviene: ogni volta che la vittima designata accetta il suo aiuto, è per il killer un’occasione di colpire, se decide di sfruttarla. In tal caso, l’esito andrebbe comunque determinato con i dadi, che però dovrebbero indicare separatamente anche se l’Infiltrato viene scoperto dagli altri compagni o meno.
Segnalo, infine, che non sono del tutto convinto da ogni singola voce della tabella dei finali. In particolare, che significa “in totale balia di Guerra, che potrà usarlo per il suo trastullo”? È colorito, ma non esattamente molto significativo. Si vuol forse lasciar intendere che, per esortare gli altri giocatori a mettere da parte dadi, il giocatore Guerra deve minacciarli di pesanti ritorsioni psicologiche qualora non lo facciano? Sono convinto che si possano progettare incentivi migliori, o quantomeno meglio espressi.

La gestione del gioco

A me sembra, comunque, che il vero cuore procedurale del gioco non stia nelle meccaniche fin qui esplicitate, bensì in quanto descritto (troppo affrettatamente) nel paragrafo “Le Scene e il Ruolo di Guerra ” e nell’incipit del successivo: in altre parole, in come viene condotto il gioco e come la “fiction” interagisce con le meccaniche, che poi hanno un solo “punto d’innesco”: «Guerra deve porre il personaggio di fronte a una sfida, una difficoltà o una scelta difficile.» Ma questa descrizione del punto d’innesco è fin troppo vaga, a parer mio, specie per assenza di contesto ulteriore.
La principale domanda a cui il testo non dà risposta è come il potere di ciascuno dei giocatori-protagonisti di “offrirsi volontari” per affrontare la sfida (di per sé un’idea interessante per come approssima un meccanismo narrativo e psicologico centrale a un racconto di cameratismo militare) interagisca, nella pratica, con l’inquadramento delle scene. Guerra è forse tenuto a porre esclusivamente sfide o problemi che riguardano tutto il “gruppo”, e che ciascuno dei personaggi che ancora non hanno agito nel Turno in corso possa offrirsi di affrontare? Se è così, si pongono limiti precisi alla tipologia di scene che Guerra può inquadrare, e se mi trovassi in questo ruolo sentirei decisamente il bisogno di indicazioni più dettagliate su come svolgerlo. O forse, questo “offrirsi” può o deve avvenire “out of character”, a priori, e poi Guerra ne tiene conto per scegliere quali scene inquadrare?
Altre domande che, come Guerra, sicuramente mi porrei riguardano il contesto presunto delle scene (solo momenti di operazioni militari, o anche “dietro le quinte” della guerra in corso?), le possibilità di suddivisione del turno in più scene (“strettamente connesse” può significare tutto o niente), la tipologia di problemi o ostacoli da contrapporre ai legionari, ecc. E come si gestisce un disaccordo tra due giocatori-legionari, nel momento in cui vogliano entrambi offrirsi? Non dubito che per alcune di queste domande la risposta giusta sia “fa’ come ti senti”, e questa è una risposta del tutto valida; tuttavia, sono certo che per almeno alcuni di questi fattori l’autore avesse in mente delle risposte molto precise, che però non ha inserito nel testo. Il problema, in altri termini, è che per un gioco così largamente affidato alla direzione di un singolo giocatore occorrono indicazioni su come svolgere questo ruolo, in assenza delle quali il documento è utile solo all’autore stesso per condurre un playtest “interno”, ma non comunica la sua visione del gioco a un lettore esterno come me.

Il ruolo dell’Infiltrato

Mi sembra che “l’anello debole” nell’attuale impianto del gioco, per quanto riguarda la complessità del contenuto e lo sviluppo psicologico dei personaggi, stia nel ruolo dell’Infiltrato. Potenzialmente questo sarebbe il personaggio per certi versi più interessante: che cosa mai può passare per la mente di un individuo che dedica sei anni a guadagnarsi la fiducia di un altro, esclusivamente con il proposito di ucciderlo? Una storia potenzialmente intrigantissima che il testo, invece, liquida in una riga e mezzo: «Uno di loro è un infiltrato, mandato per uccidere proprio uno degli altri personaggi, reo di aver abbandonato la causa .» Quale causa? Una qualunque, magari?
La verità è che, per come è strutturato il gioco, quello dell’Infiltrato è un “ruolo tecnico”, funzionale a dare un senso (pur con i limiti di cui già ho parlato) alla meccanica della Fiducia che, invece, negli altri giochi da cui è tratta si regge su circostanze per cui tutti potrebbero tradire tutti in ogni momento. L’ispirazione sorge dagli ingredienti del concorso (la “mela marcia”), ma non è ben sfruttata. Per come stanno le cose ora, l’Infiltrato è privo di identità: “è probabile” che le sue Eredità false e di copertura, il suo Segreto (la parte più intima di ogni altro personaggio) viene sostituito dalla scelta del bersaglio… bersaglio che, fra l’altro, è individuato praticamente a caso. Qualsiasi relazione indiretta sussista tra assassino e vittima designata dovrà essere improvvisata a posteriori, e oltretutto sempre nell’ignoranza del Segreto. L’evento insieme meno verosimile e più caratterizzante dell’intera vicenda (ho già sottolineato che si tratta di un inganno lungo sei anni?) rimane completamente privo di movente.
Sarebbe molto più interessante, credo, se la scelta del bersaglio e il movente dell’Infiltrato si legassero fin dall’inizio alla rete di Segreti presente. Per esempio, posso ipotizzare una soluzione in cui non si sorteggia l’Infiltrato con le carte, ma piuttosto dopo aver ricevuto i Segreti di tutti Guerra si prende una breve pausa di riflessione; se alcuni dei Segreti hanno un legame tematico con altri, Guerra può a questo punto passare bigliettini ad alcuni giocatori… Per esempio, se uno dei protagonisti avesse il Segreto “ex-membro del partito nazista” e un altro il Segreto “fuggito da un campo di concentramento”, Guerra potrebbe passare a quest’ultimo il messaggio: «Fra di voi c’è un nazista. Vuoi vendicarti?»; solo in caso di risposta affermativa, Guerra comunicherebbe al giocatore in questione l’identità del suo bersaglio (s’intende che Guerra dovrebbe avere uno scambio di bigliettini bianchi con tutti i giocatori ai quali non ha niente da comunicare). Con questo sistema potrebbero esserci contemporaneamente più “infiltrati” con bersagli diversi, o anche nessuno: non importa, perché l’equilibrio del gioco si regge sul sospetto. Potrebbe perfino esserci un infiltrato che ha per bersaglio un altro infiltrato che ha per bersaglio un terzo protagonista. Ovviamente questa è solo una proposta di variante costruita frettolosamente, ma dovrebbe rendere l’idea di ciò che intendo quando parlo di un “movente” per l’attentato finale.

In conclusione

Legione straniera è una raccolta di appunti ancora incompleti per un gioco che si prospetta interessante e avvincente, ma in cui sospetto alcune debolezze che dovranno essere sanate nel corso delle prossime fasi dello sviluppo. Consiglio a Iacopo, se non lo sta già facendo, di mettersi al tavolo e giocare, sottoponendo alla prova dei fatti questi miei dubbi o eventuali altri. Quando avrà verificato ed eventualmente corretto le meccaniche, potrà dedicarsi a redigere una bozza più estesa per il playtest esterno, in cui darà indicazioni più precise e dettagliate su come svolgere il compito di Guerra. Il tutto nell’ottica di arrivare, prima o poi, a un prodotto editoriale dalla presentazione meno succinta che dia spazio all’ambientazione storica, con un taglio personale ma senza la pretesa di esaurire l’argomento. Tutte queste cose suppongo però che l’autore, cui certo non fa difetto l’esperienza, le sappia già.

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